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Categoria: Politica e ditorni

La sinistra riparte dai territori? Ma come?

Il 4 marzo è stato definito da tutti lo tsunami che ha travolto la sinistra italiana in tutte le sue versioni.
Si tratta, però, dell’ultimo stadio di un processo di rottura tra la sinistra politica e la propria classe sociale iniziato oltre trent’anni fa, quando i nuovi equilibri del sistema economico hanno messo in discussione il compromesso sociale tra capitale e lavoro instaurato nel dopoguerra. La socialdemocrazia europea ha perso così la propria missione e si è limitata a gestire l’esistente, rappresentando le istanze della borgesia “illuminata”.
In questo scenario il populismo, nelle sue varie forme, ha trovato tra le classi sociali più fragili un vuoto di rappresentanza politica e lo ha occupato cannibalizzando i corpi intermedi, sprofondati anch’essi in una crisi di funzione, alimentata dalla disintermediazione. D’altronde, se non c’è un progetto capace di offrire una prospettiva di emancipazione, gli esclusi non possono far altro che rivolgere lo sguardo verso il passato, cercando lì la propria identità, per difendersi dalla paura e dar sfogo al risentimento.
Nelle recenti elezioni questo vuoto è stato occupato dal Movimento 5 Stelle che ha tenuto insieme una prospettiva interclassista e antistatuale, utilizzando l’anti-casta come collante identitario per chi si sente escluso. Questa offerta politica ha avuto un maggior successo nel Mezzogiorno, considerato storicamente più movimentista e ribelle (ne parla qui Nadia Urbinati). La Lega ha inevitabilmente sfondato nel centro-nord con un’organizzazione più solida, fondata sull’elemento identitario del recupero dello Stato Nazione e della difesa dall’invasore.
In questo contesto non solo per il PD, ma anche per chi era collocato alla sua sinistra, non c’era partita, o perchè assimilato all’establishment (anche LEU non presentava molti volti nuovi…) o perchè ininfluente rispetto al vortice che vede solo due forze di “cambiamento” in campo.

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