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#fastfoodglobal. Riflessioni sul primo sciopero globale

Oltre 150 città in tutto il mondo, mobilitazioni in 33 paesi tra i quali molti che non sono certo famosi per le libertà e le conquiste sindacali: Giappone, Nigeria, Indonesia, Taiwan, Thailandia. E poi in tutta Europa e negli Stati Uniti, paese in cui la protesta è nata prima di globalizzarsi, fino alla Nuova Zelanda, passando per la Corea del Sud e per Hong Kong.
È questo lo straordinario risultato della prima giornata di azione mondiale contro le catene dei fast food: Mc Donald’s, BurgerKing, Wendy’s, Kentucky Fried Chicken, solo per citarne alcune. Ha visto scioperi e azioni accumunate da richieste comuni quali una paga decente e maggiori diritti, che hanno trovato eco nei social network e sulla stampa con gli hashtag/slogan #fastfoodglobal e #lowpayisnotok.

In Italia la protesta si è legata allo sciopero di Filcams Fisascat e Uiltucs, indetto per chiedere il rinnovo del contratto del turismo, in un mix realizzato soprattutto per lo sforzo della Filcams –che è riuscito per la prima volta dopo anni a portare l’attenzione del turismo e del terziario. Senza frenare l’entusiasmo e l’orgoglio di una due giorni così riuscita nel nostro paese, che si inserisce in una pagina sicuramente storica per il movimento sindacale mondiale, cerchiamo di capire meglio le origini di questo successo e le prospettive possibili di questa protesta. Salta subito all’occhio un’apparente contraddizione: la prima grande mobilitazione di lavoratori su scala globale avviene in un settore caratterizzato da una scarsa sindacalizzazione se non da condizioni ostili all’insediamento sindacale, non in un contesto di forza sindacale. I grandi marchi dei fast food sono infatti articolati da sistemi di franchising che spesso vedono pochi punti vendita sotto la stessa società, quando non addirittura la singola affiliazione, con una conseguente scarsa tutela per il lavoratore. Inoltre nei fast food prevale il lavoro part time, con lavoratori che rimangono poco sul luogo di lavoro, si incontrano poco, e in cui è quindi difficile costruire quei legami che stanno alla base dell’azione sindacale quali la solidarietà e l’individuazione di una condizione e di un destino comune. Dobbiamo inoltre pensare alla normativa di molti paesi in cui si è svolta la protesta, che tende a contrastare la sindacalizzazione e l’organizzazione dei lavoratori, non garantendo il diritto di sciopero e punendo anche con sanzioni economiche le azioni sindacali.
Quali sono stati quindi gli elementi che hanno consentito un’azione così forte in un contesto così debole?
Per scoprirlo dobbiamo fare un salto di due anni, periodo in cui nasce la protesta contro le paghe da fame nei fast food americani che ha dato il via alla protesta globale. Il primo nucleo della protesta si forma nel 2012, quando un centinaio di lavoratori appartenenti a una trentina di franchising di New York incrocia le braccia per chiedere salari più alti: a New York i fast food pagano giusto il minimo del salario previsto per legge: 7,25 dollari l’ora, contro i 7,80 dollari della media dei fast food americani e i 18 dollari della paga oraria media negli Usa. Il giorno dopo lo sciopero gruppi di attivisti supportati dai sindacati americani accompagnano i lavoratori nei luoghi di lavoro, dove i datori di lavoro li avrebbero sicuramente accolti con la notizia del licenziamento: negli Usa infatti il licenziamento per rappresaglia non è contrastato. Al momento della notifica del licenziamento gli attivisti disposti fuori dai locali iniziavano a montare proteste che coinvolgevano la clientela, imponendo la riassunzione del dipendente licenziato per aver scioperato. Utilizzando queste forme di “autotutela collettiva” il movimento per un salario dignitoso nei fast food ha preso piede in tutti gli Stati Uniti, coinvolgendo, nella primavera del 2013, oltre 13 città e imponendo il tema nell’opinione pubblica. Secondo Kendall Fells, uno dei leaders della protesta, oltre alle difficoltà legate alla debolezza contrattuale dei lavoratori, un forte ostacolo da rimuovere è stata la convinzione diffusa nell’opinione pubblica che lavorare in un fast food rappresentasse per lo più un’esperienza transitoria, legata alla necessità di arrotondare le entrate per comprarsi un paio di scarpe in più, mentre invece nei fast food lavorano persone con figli, bollette da pagare e affitti e solo il reddito di quel lavoro su cui contare.
Il movimento americano si è posto un obiettivo molto semplice e univoco: il raggiungimento di una paga oraria di 15 dollari all’ora, con uno slogan “fight for 15”, che è diventato simbolo della protesta. Ed è stato con l’intento di trovare solidarietà a questa azione che il movimento dei lavoratori dei fast food e i sindacati americani del settore si sono rivolti alla Iuf, la federazione mondiale dei sindacati della ristorazione e degli alberghi.

La difficoltà per la Iuf è stata quella di accogliere una richiesta di adesione a una protesta basata solo sul salario – ci racconta Massimo Frattini, che milita nello Iuf e proviene dalla Filcams Cgil – per questo abbiamo posto come condizione l’elaborazione di una piattaforma più ampia che includesse anche i diritti, il tema della libertà di organizzarsi sindacalmente e di contrattare”.
Ne è risultata una piattaforma snella ma precisa, rivolta alle aziende del settore ma non autoreferenziale, nata dal confronto di tutte le rappresentanze sindacali dei fast food che si è svolto a New York all’inizio del mese di maggio.
“Nel confronto è emerso che la realtà americana era sì diversa dalla nostra, ma simile nella sostanza, a partire dal fatto che il lavoro nei fast food non è più un’esperienza temporanea anche nel nostro paese” dice Cristian Sesena, che ha partecipato al meeting per la Filcams nazionale. Anche i tempi non sono stati casuali: la Iuf ha accelerato il confronto per rispondere alla richiesta degli americani di svolgere l’azione globale pochi giorni prima dell’assemblea degli azionisti, del 22 maggio. La scelta del 15 non è casuale, il 15 infatti è anche l’obiettivo salariale che si è posto il movimento americano.

Dopo questo straordinario successo, quali sono le prospettive? “È la domanda più difficile” dice Frattini “finora siamo riusciti a fare sintesi tra le situazioni e quindi le esigenze diverse poste dai vari affiliati (i sindacati nazionali, ndr), ma oggi dobbiamo capire come procedere, spinti dall’entusiasmo ma anche da una grande responsabilità che il successo dell’iniziativa ci consegna, dobbiamo saper innovare e non disperdere il lavoro fatto”.

Sicuramente l’esperienza consegna una grande lezione al sindacalismo mondiale e anche a quello italiano: un’azione forte di organizing ha portato a un’azione globale che non ha eguali tra gli sforzi delle grandi confederazioni. Gli elementi di successo sono rintracciabili in un approccio innovativo nei confronti dei lavoratori e delle lavoratrici, che sono stati organizzati attraverso messaggi semplici e immediati, obiettivi chiari, e un lavoro di costruzione di identificazione che ha portato gli stessi a mobilitarsi in prima persona. Il resto lo hanno fatto un sapiente utilizzo dei social network per sensibilizzare e attivare l’opinione pubblica, fino all’individuazione dello scenario globale come vero campo di gioco nei confronti delle multinazionali protagoniste del settore.
La Filcams ha saputo cogliere l’opportunità di aderire a questa mobilitazione riportando il punto, in Italia, sulle questioni legate alla contrattazione nazionale di categoria, senza perdere di vista la specificità dei lavoratori del fast food. Un’occasione importante che ha dimostrato che l’innovazione e l’apertura alle pratiche provenienti dagli altri paesi possono rafforzare il movimento sindacale anche qui da noi e fornire le risposte organizzative e di rappresentanza che il terziario chiede.

Luca De Zolt – Filcams Cgil nazionale
tratto da Diario del Terziario, il giornale della Filcams Cgil
Published inLavoro e diritti

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